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ATTUALITA': I cavalli che fanno le domande
E Pietro e Luca Moneta cercano le risposte giuste con lo stile di vita


C’è una tribù degli indiani del nord America che ha nel significato del suo nome la parola cavallo :  Comanche. Qualche anno fa, Pietro e Luca Moneta chiamarono in Italia un discendente di uno dei capi proprio di questa tribù, per farsi spiegare meglio qual era il rapporto degli indiani d’America con questo animale. “Ha soddisfatto la nostra sete di conoscenza di altri modi di trattare e vivere con i cavalli” dice Pietro, “Mi ha aiutato a tornare indietro alla mia passione di bambino quando sognavo di fare il cavaliere” dice Luca.

Allora partiamo da lì, dall’infanzia. Pietro è più grande, ha 61 anni, Luca ne ha 47 e sono nati a Milano, 12 figli. C’era uno zio ex ufficiale di cavalleria che proprio non poteva pensare che di questi dodici ragazzi figli di sua sorella nessuno montasse a cavallo. E poi c’è ne era un altro di zio, ufficiale di artiglieria a cavallo della Campagna di Russia, tra l’altro uno dei pochi tornati vivi da quel massacro. Il primo zio prende Pietro ed a cinque anni lo mette in sella. Non sapeva ovviamente, “lo zio”, che non sarebbe mai più sceso. Ancora oggi e chissà ancora per quanto. Sono gli unici in una famiglia che quando si riunisce a Natale conta circa cinquanta persone, che vanno a cavallo a parte una lontana cugina, Maria Moneta che fa galoppo, con ottimi risultati, tanto da essere stata premiata come Signora dell’Ippica al Premio Lidya Tesio.

La svolta arriva presto a tredici anni quando Pietro ed un amico decidono di affrontare un percorso di trekking “armati” solo dei loro cavalli e di qualche mappa militare fornita dallo zio. E’ il cancello che si alza verso quello che si chiama l’endùrance, “con l’accento sulla ù - spiega Pietro  - e non come dicono tanti éndurance. Il passaggio dalle gite di campagna o di montagna all’Endurance è facile, è l’evoluzione dell’equitazione di campagna: le passeggiate diventano sempre più lunghe e la velocità aumenta. Non a caso siamo la seconda disciplina della FEI per numero di partecipanti e quella più in crescita”.

Perché la voglia di andare il più a lungo possibile a cavallo in luoghi spesso inaccessibili è una specie di mania, di fuoco sacro che ti brucia dentro e che non sai come spegnere. “In realtà – dice ancora Pietro – è come una maratona: è una malattia, neanche una passione perché quella prima o poi può andar via, finire. Questa no. E’ una cosa inguaribile, è una sfida continua con te stesso, come tutte le prove di resistenza, anche quelle dove sono coinvolti solo gli uomini.”

Intanto Luca cresce e vede il fratello fare questa attività bellissima con i cavalli e si sente attratto. Finchè un bel giorno anche per lui arriva la domanda fatidica”Ti va di provare?”. “Certo che sì” è la risposta del piccolo Luca, anche lui intorno ai cinque anni. “Per prima cosa mio fratello mi ha messo nel tondino e mi ha detto per diversi giorni ora vai al passo e mi ha spiegato cos’era il passo, perché e per come. Poi siamo passati al trotto, anche lì, perché, quando, come, perché battere il sedere. Infine il galoppo. Lì ho capito che quello sarebbe stato il mio lavoro anche perché nei miei sogni di bambino c’era appunto quello di fare il cavaliere. Così per mantenermi al maneggio e pagarmi le lezioni ho imparato a far di tutto dentro un maneggio. Così ho potuto iniziare la mia vera attività ancora oggi, quella di istruttore che ancora mi permette di pagarmi anche le gare che però mi servono per…”

Fermiamoci qui per adesso perché è il momento di cominciare a srotolare quel filo che ci porterà alle conclusioni della storia di questi due ragazzi che della vita coi cavalli hanno fatto una filosofia.  “Vede il tipo di approccio che abbiamo scelto di avere coi cavalli – dice Pietro ma interpreta anche il pensiero di Luca – ci porta ad essere un po’ tutto nei confronti del nostro compagno di vita: oltre che cavalieri siamo una sorta di groom, di mezzi maniscalchi e quasi di mezzi “veterinari”. E poi io sono rimasto a quello che era il modo di montare un cavallo per l’endùrance come era una volta: nelle salite e nelle discese troppo ripide io scendo di sella per alleggerire il mio compagno . Il mio obbiettivo non è vincere a tutti i costi ma arrivare alla fine della gara, alla visita finale nelle migliori condizioni possibili per i cavalli. La mia gioia è vedere il mio cavallo che il giorno che ha fatto 160 km di gara è nel paddock a sgroppare e magari a giocare con me”.

Giocare. Un concetto che fa sorridere Luca, anche con un po’ di amarezza: ”Magari avessi il tempo che vorrei per giocare con i miei cavalli. Purtroppo ne ho poco. Devo dire che da questo punto di vista i periodi più belli sono quelli dei ritiri con la nazionale perché lì c’è un po’ più di spazio per stare in libertà con i propri animali. Ma io ho la fortuna di avere un team di persone da questo punto di vista eccezionale anche in questo aspetto fondamentale. I cavalli che arrivano a me sono cavalli considerati esauriti, bolliti, rotti, difficili. Io li prendo e cerco di capirli, di capire quali sono le domande che hanno in testa e dare loro le risposte giuste. Essere un cavallo difficile è particolare. Un cavallo difficile ti fa delle domande e se non ha le risposte giuste si chiude ed allora lo hai perso. Io da piccolo ero così, introverso e difficile. I cavalli speciali non amano essere sottomessi e diventano difficili. Per esempio non è necessario montare con gli speroni neanche nelle gare più importanti ed io non lo faccio. Non tutti i miei cavalli sono ferrati. Perché i piedi, specie quelli posteriori che nel salto ostacoli sono meno sollecitati ad impatti pesanti, non ne hanno bisogno. E spesso neanche quelli anteriori se un cavallo ha buoni piedi.”.

“C’è un emozione forte nel rapporto col cavallo da endurance – aggiunge Pietro – che con nessun cavallo di nessun altra disciplina si può raggiungere, per il tanto tempo che passiamo insieme. Una volta in Americapartecipavo alla Tevis Cup sono partito alle 4.30 del mattino e sono sceso di sella 23 ore e ¾ dopo, passando con lui attraverso il freddo, l’umido, il caldo, poi di nuovo il freddo. Ma lui, il cavallo mi ha seguito senza problemi. Perché ha bisogno di questo di un leader riconosciuto che soddisfi i suoi bisogni primari: mangiare, bere, la sicurezza. Allora l’uomo diventa il leader del branco. Ecco io e Luca che abbiamo sposato la filosofia dell’etologia, cioè studiamo il comportamento del’animale, ci chiediamo il perché delle cose. Ed oggi non potremmo vivere senza questo atteggiamento”.

“Io vado a cavallo perché amo i cavalli. Le vittorie sono solo una conseguenza di questo amore. In più la mia fortuna risiede nel fatto che io riesco a rifiutare la maggior parte della richiesta di pressione che arriva dal mondo dell’equitazione professionistica.”

Avete mai fatto l’uno lo sport dell’altro? “Per carità – attacca Luca – una volta ho fatto una 60 km in più con un cavallo che non andava. Un incubo e tutto per far un favore a mio fratello che doveva qualificare un suo cavallo a non ricordo più neanche che gara, ho rimosso tutto:  il posto, gli altri cavalieri e l’anno…”

“Sì, dopo aver partecipato ad una caccia alla volpe della Società Milanese Cacce a Cavallo– risponde Pietro ho disputato la finale del cross delle cacce: 3500 metri di ostacoli fissi, non altissimi, ma comunque non semplici per un cavallo da endùrance. In partenza quelli del salto mi hanno seminato con i loro cavalloni alti e forti. Ma quando siamo arrivati ad un ostacolo in un laghetto dove nessuno voleva entrare, il mio piccolo anglo-arabo sardo ci si è tuffato e siamo arrivati terzi. Ma mai più”
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