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SIMONE BESUTTI: DA MONSELICE ALL’AMERICA

di Umberto Martuscelli – ph. Ashley Neuhof Photography (Simone Besutti - a sinistra -  insieme a Harrie Smolders)

Questa intervista racconta una storia: che non è solo quella di chi l’ha vissuta in prima persona - cioè lui, Simone Besutti - ma è anche quella di chi vive di passioni e di sogni. Leggerla rappresenta allo stesso tempo un insegnamento, un’esortazione, una spiegazione, l’indicazione di una via. Quindi va letta.

Simone Besutti: la sua è una vita piuttosto movimentata… Andiamo quindi con ordine e partiamo dal principio.
«Sono nato a Monselice, in provincia di Padova, il 3 agosto 1976».

Famiglia di cavalli?
«No, assolutamente».

E come le è venuta la passione?
«Avevo 12 anni. Guardando un film in televisione. Mi sono innamorato dei cavalli. Istantaneamente».

Cosa è successo quindi?
«Il giorno dopo aver visto quel film ero in scuderia da Nicola Rango, al Centro Ippico Due Cavalli a San Pietro Viminario. Ho fatto il primo tesserino di dieci lezioni, poi il secondo, poi il terzo… e così via. Sono rimasto da Nicola due anni».

Al termine dei quali?
«Ho avuto il primo lavoro: dal commerciante Luciano Zanella, a Sant’Angelo di Piove di Sacco».

Un personaggio piuttosto noto nel mondo dello sport equestre veneto…
«Sì, e da lui sono rimasto due anni. La mattina andavo a scuola, il pomeriggio da Zanella per guadagnare i miei primi soldi».

Due anni anche da Zanella: quindi siamo ai suoi 16.
«Sì, quando ho lasciato casa».

Una decisione importante…
«Molto. È successo che a un certo momento ho partecipato a uno stage tenuto da Gianluca Bormioli. Finito lo stage, Gianluca mi ha chiesto se poteva interessarmi lavorare per lui».

Lei ovviamente ha dato risposta affermativa…
«Certo. Ed è stata una risposta importante perché ho lasciato scuola e famiglia per vivere il primo trasferimento della mia vita».

Quali erano i suoi compiti in scuderia da Gianluca Bormioli?
«Mi occupavo di montare i suoi cavalli giovani, alcuni di proprietà anche di Lalla Novo, e tra i cavalli giovani ce n’era sempre uno adulto con il quale facevo le gare da juniores prima e poi da young rider… nei quattro anni con Gianluca infatti ho vissuto la transizione da una classe d’età all’altra».

Un periodo molto formativo…
«Beh, se devo pensare a una persona che in Italia ha avuto per me un’importanza particolare… quella persona è Gianluca Bormioli. Quelli trascorsi con lui sono stati quattro anni importantissimi e bellissimi, purtroppo interrotti dal servizio militare che a un certo punto non ho più potuto rimandare. Era il 1997. L’ho fatto in Aeronautica ma non a livello sportivo perché a quel tempo non avevo ancora il 2° grado e non avevo i piazzamenti richiesti. Quindi ho fatto il militare proprio da militare e non da cavaliere».

Terminando così il periodo da Gianluca Bormioli.
«Sì, infatti… Poi ho trascorso qualche anno da Claudio Corradin ad Abano Terme. Lì ho cominciato a lavorare in proprio, per conto mio, dal 1998 fino alla fine del 2002: montavo cavalli in gare nazionali e facevo l’istruttore con delega. Nel 2003 ho fatto il corso istruttori: c’è stata l’opportunità di farlo in Veneto, a Trecenta, con l’allora colonnello Amos Cisi, così ho colto l’occasione. Mi sono diplomato istruttore federale pensando di dedicarmi a questo lavoro in Italia negli anni a venire».

Quindi i suoi progetti sarebbero stati questi. Ma anche i suoi sogni?
«A quell’età lì, quando si è molto giovani, si sogna sempre il massimo. Non so… le Olimpiadi… Anche perché pensi che aver lasciato casa e famiglia e scuola sia un sacrificio che ti debba per forza di cose portare a un risultato importante. Anche se a essere sincero fin da allora non mi interessava più di tanto essere un cavaliere agonista: mi è sempre piaciuto di più il lato dell’allenamento, del training, questo è sempre stato l’aspetto che mi ha affascinato di più».

Ma pensava già alla possibilità di trasferimento all’estero?
«In linea generale sì, mi attirava molto la realtà d’oltreconfine… pensavo spesso a Guido Dominici che era andato giovanissimo in Belgio, o a Mauro Atzeri negli Stati Uniti… ».

Poi la cosa è effettivamente accaduta…
«Sì, nel 2008. Ho fatto quattro valigie con tutte le mie cose, le ho caricate in macchina e sono andato in Belgio».

Come mai proprio lì?
«Perché in Belgio vive un mio buon amico, allevatore e commerciante, che mi aveva sempre proposto la possibilità di stare eventualmente da lui per un po’ di tempo per farmi un’idea di come fosse la realtà di quei posti».

Non la spaventava un po’ lasciare l’Italia?
«Il fatto è che in Italia non mi pareva di avere grandi sbocchi: mi vedevo a fare l’istruttore a destra e a sinistra, non avevo cavalli per fare le gare, poi io caratterialmente forse sono un po’ troppo timido, un po’ troppo riservato, non sono mai riuscito a crearmi un giro di allievi o studenti o clienti, come vogliamo chiamarli… E comunque non era quello che volevo: rimanere in Italia per saltare una 130 e sentirmi dire bravo non era il mio obiettivo, comunque non era quello il motivo per cui avevo lasciato la mia famiglia a 16 anni… Tutti i sacrifici che avevo fatto volevo indirizzarli verso qualcosa d’altro».

Però non sarà stato facile all’inizio in Belgio… anche da un punto di vista economico.
«Per niente. Io ho vissuto i primi due anni in una casa senza mobili. Perché o pagavo l’affitto o comperavo i mobili… non avevo molta scelta. Oggi lo dico sorridendo ma ne sono molto fiero… Avevo un tavolo di plastica, quattro seggiole e un letto. E nemmeno la televisione. Però non ho mai detto prendo la macchina e torno a casa, prendo la macchina e guido in direzione sud. Mai».

E con la lingua?
«Durissima… L’inglese non lo avevo ancora perfezionato quindi spesso mi trovavo in situazioni in cui non riuscivo a capire nemmeno una parola dei discorsi che si facevano intorno a me. Il fiammingo poi è una lingua bella tosta… Inoltre in quegli anni di italiani in Belgio ce ne saranno stati forse un paio, non come oggi che sono almeno una ventina. Di persone di cavalli, intendo, ovviamente».

Ma come faceva a mantenersi?
«Non è stato facile ovviamente… Sono arrivato lì come Simone Besutti senza nemmeno un curriculum… All’inizio mi sono appoggiato a questo mio amico belga e andavo un po’ in giro a lavorare per sopravvivere, detta molto chiaramente, non è che avessi contratti o ingaggi… Poi allora c’era meno possibilità di comunicazione rispetto a oggi, non esistevano i social, era tutto più complicato».

Nei momenti più difficili non ha mai pensato di tornare a casa?
«No, assolutamente. Quando mi mancavano i soldi cercavo sempre uno o due cavalli in più da montare, non dicevo mai torno in Italia e provo ad accontentarmi di quello che mi offre casa mia. Cercavo qualche cavallo in più da montare e con quello ripartivo».

Però poi deve essere successo qualcosa che ha indirizzato gli eventi nel verso giusto, no?
«Sì, esatto: l’arrivo in Olanda di Piergiorgio Bucci nel 2010. Sono stato nella sua scuderia quasi un anno e grazie a lui c’è stata la svolta. Perché a un certo punto è arrivato da Piergiorgio il messicano Alfonso Romo (cavaliere dilettante e proprietario dell’allevamento La Silla, oltre che di un favoloso centro ippico a Monterrey dove si organizzano concorsi del massimo livello internazionale, n.d.r.) per fare l’estate di concorsi in nord Europa. Romo mi ha visto montare, mi ha visto lavorare… e dopo qualche mese mi ha proposto il trasferimento da lui per dedicarmi ai cavalli giovani del suo allevamento in Messico».

E lei… ?
«Ho accettato ovviamente! Così all’inizio del 2011 mi sono trasferito a Monterrey e per quasi due anni ho lavorato all’allevamento La Silla. Per poi però tornare in Europa… ».

Perché?
«Perché il cavaliere numero uno della scuderia a quel tempo era Alberto Michan. Quando lui si è trasferito in Europa per preparare le Olimpiadi di Londra 2012 io sono stato incaricato di accompagnarlo per fargli da assistente».

Cosa voleva dire fargli da assistente?
«Montare i cavalli, stare con lui ai concorsi, fare la ricognizione del percorso insieme, lavorare in campo prova, coordinare tutto il da farsi stando dietro le quinte».

E tutto è andato per il meglio, visto il 5° posto individuale di Alberto Michan nella gara olimpica!
«È stato un risultato magnifico. E anche un po’ inaspettato, devo dire. Alfonso Romo ne è stato talmente entusiasta che come premio ci ha fatto rimanere in Belgio per continuare a fare concorsi, cercando di ottenere altri risultati e facendo altre esperienze importanti. Per due anni».

Quindi il suo lavoro è continuato nel ruolo di assistente di Alberto Michan?
«Sì, esatto. Quando Alberto era a casa io lo affiancavo nel lavoro: se lui montava io stavo a terra per seguirlo, per fargli da allenatore, da trainer insomma. Di tanto in tanto venivano a fare degli stage personaggi del calibro di Jos Kumps o di Eric van der Vleuten ai quali partecipavo montando a mia volta, ma nella normalità quotidiana ero comunque io la persona che seguiva Alberto nel lavoro. Poi mantenevo i contatti con il veterinario, con il maniscalco, gestivo i groom, preparavo gli esercizi sui quali lavorare il giorno successivo… ».

Due anni, dunque…
«Sì, al termine dei quali Alfonso Romo ci ha richiamato in Messico. Io però nel frattempo mi ero fidanzato con una ragazza italiana che viveva in Belgio, ma estranea al mondo dei cavalli, e di ritornare in Messico… beh, non me la sono sentita in quel momento, anche perché in Belgio ero comunque a un’ora di aereo da casa mia, da mia madre e dall’Italia, mentre da Monterrey la storia è ben diversa».

Nuovo colpo di scena?
«Sì, perché proprio in quel momento Harrie Smolders stava cercando qualcuno che ricoprisse per lui esattamente il ruolo che io avevo per Alberto Michan. Ancora una volta è stato Piergiorgio Bucci la persona chiave: è stato lui a mettere Smolders in contatto con me. E così all’inizio del 2015 mi sono spostato di una trentina di chilometri passando da una scuderia all’altra. Harrie a quel tempo stava da Axel Verlooy (un passato di cavaliere internazionale, oggi commerciante di alto livello, padre di Jos, cavaliere della prima squadra belga, n.d.r.)».

Per lei è cambiato qualcosa circa le sue mansioni?
«Diciamo che è cresciuto un po’ tutto. Io ero incaricato di seguire tutti i cavalli di Harrie ma anche quelli del figlio di Axel, Jos. Poi quando durante l’estate arrivavano dall’America allievi o clienti di Axel facendo base in scuderia da noi ero io che li seguivo e li affiancavo nel lavoro in piano e su piccoli esercizi, se andavamo in concorso li accompagnavo nella ricognizione del percorso… Li assistevo in tutto e per tutto, insomma».

È stato un periodo di soddisfazioni per lei?
«Enormi soddisfazioni… ! Sono stati anni bellissimi. Quando sono arrivato Harrie era il n. 31 nella computer list, e dopo circa quattordici mesi e per quasi due anni siamo stati i numeri uno del mondo… Dico ‘siamo’ perché si è trattato comunque del lavoro di tutta una squadra. Quattro anni di risultati formidabili. Però i risultati vanno e vengono: il bello con Harrie invece è il rapporto di amicizia, la condivisione delle idee, il modo di considerare la vita con i cavalli. Vincere è bello e importante, certo, ma quello che ci interessa maggiormente è avere cavalli sani, sereni e longevi il più possibile. Tutti i cavalli che Harrie ha ritirato dallo sport hanno terminato la loro carriera a 17 o 18 anni in piena forma, tanto che avrebbero potuto continuare ancora per almeno una stagione in più. Questa è una cosa che mi piace forse più ancora del fatto che Harrie sia stato il numero del mondo».

Quattro anni, ha detto: perché poi è cambiato qualcosa?
«Sì perché tra Harrie e Axel Verlooy c’è stata una specie di separazione dolce e morbida, diciamo, dovuta anche alla progressiva crescita di Jos Verlooy come cavaliere di alto livello. Axel e Harrie continuano a collaborare, ma Harrie si è poi organizzato in un’altra scuderia, pur sempre in Belgio. E durante gli anni in cui lui era il numero uno del mondo è successa un’altra cosa che ha rappresentato un altro cambiamento nella mia vita… ».

Cioè?
«Cioè Harrie aveva cominciato a fare da trainer per Jennifer Gates, fondatrice di Evergate Stables, e mi ha coinvolto come suo assistente anche in questo ruolo. Così io nel luglio del 2019 mi sono trasferito negli Stati Uniti e… eccomi, sono ancora qui».

Quindi lei adesso lavora per la Evergate Stables?
«Sì, il primo periodo l’ho fatto andando su e giù perché qui in America con i permessi di soggiorno e lavorativi non è facile, ma nel 2020 ho finalmente avuto il permesso di soggiorno come lavoratore».

Alla Evergate Stables lei fa dunque le cose come le faceva prima con Michan e Smolders, quindi?
«Sì, esatto. Assisto i tre cavalieri della scuderia montando i loro cavalli e seguendoli sia nel lavoro a casa sia durante le trasferte in gara».

Insomma: un bel progresso, rispetto al giorno del suo primo trasferimento in Belgio dall’Italia…
«Ho sempre pensato che prima o poi ce l’avrei fatta a realizzare il mio sogno, il mio progetto: cioè essere quello che sono oggi. Intendiamoci: sono nessuno, sia chiaro, però sono contento di quello che sto facendo. È questo quello che mi rende felice: essere contento di quello che sto facendo. Essere felice di me stesso era il sogno che avevo in Belgio anche quando stavo nella casa senza mobili perché non potevo permettermi di acquistarli… ».

E i progetti di adesso, invece? Come vede il suo futuro?
«Continuare a migliorare: questo è il progetto. Quanto al futuro… direi che per i prossimi dieci anni più o meno mi vedo qui, in America. Continuando nel mio ruolo di assistente istruttore, anche se nell’arco di qualche anno vorrei essere io l’istruttore. Oggi potrei già esserlo se avessi degli allievi juniores o young rider ma a livello di gare a cinque stelle sento il dovere soprattutto nei confronti di me stesso di migliorare ulteriormente. Lo vedo come un sogno realizzabile, tuttavia, soprattutto grazie alle esperienze che ho vissuto e che sto vivendo quotidianamente».

Lo vorrebbe realizzare all’estero o in Italia?
«Tornare in Italia prima o poi sarebbe bellissimo, è quello che vorrei potesse succedere dopo questi prossimi dieci o quindici anni, chi lo sa… Però una cosa è certa: se torno in Italia voglio poterlo fare a… gonfie vele!».