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SANTE BERTOLLA

di Umberto Martuscelli

Tecnicamente parlando sarebbe – cioè: è – friulano, essendo nato in provincia di Pordenone il 23 agosto 1953. Ma di fatto Sante Bertolla è veneto: fa parte della vita della regione… anzi, meglio, è parte costituiva del tessuto dello sport equestre veneto senza alcuna ombra di dubbio. Cavaliere di eleganza e finezza ma anche di forza in gioventù, dal fisico alto e potente e atletico: però la parte migliore e di maggiore successo della sua carriera Sante Bertolla l’ha vissuta da tecnico, da trainer dedicato al lavoro e alla preparazione altrui.

Lei è stato un cavaliere eccellente però ha avuto più successo come tecnico: perché?

«Sì, senz’altro, è vero. Direi che in buona parte è dipeso dal non aver avuto la disponibilità di cavalli di un certo livello, e anche da una serie di circostanze non particolarmente favorevoli».

Tipo?

«Mah, non so… solo per fare un esempio, un anno avrei dovuto fare lo Csio di Roma selezionato dal cavalier Vittorio Orlandi allora tecnico azzurro, però ho dovuto dire di no perché il mio cavallo doveva fare la gara a squadre per il Veneto… Un’altra volta avrei dovuto andare a San Gallo per lo Csio della Svizzera con la prima squadra ma ancora una volta è nato un intoppo… ».

E le conseguenze?

«Ho deciso che sarebbe stato meglio intraprendere un’altra strada. E direi che mi è andata bene, anzi, potrei forse dire che quella decisione è stata la mia fortuna».

Lei come tecnico ormai ha una fama e una rinomanza indiscutibili: ma qual è la chiave, il segreto del suo successo?

«Non credo ci siano segreti particolari… Diciamo che ho avuto la fortuna di lavorare con ragazzi in gamba, anche se non sempre tutti del livello e della qualità di Alberto Zorzi, o di Gianluca Palmizi che è stato quello con il quale ho cominciato».

Ormai sono moltissimi anni che lei fa questo lavoro: non ne sente la fatica?

«No no, ogni anno quando inizia la stagione sono sempre più carico. Quando non sentirò più questa adrenalina che mi prende a bordo campo e nel lavoro… allora lascerò. Ma il mio è un lavoro che mi piace tantissimo e che faccio con entusiasmo e voglia immutati, come se fosse il primo giorno».

Un lavoro per cui ci vogliono competenza, esperienza, capacità di capire i cavalli… ma non solo i cavalli, anche le persone!

«Sì, esatto, soprattutto nel caso di ragazzi giovani».

Quindi la dimensione psicologica è importantissima, quasi quanto quella tecnica?

«Direi di sì. Può forse sembrare una banalità da dire, ma il fatto è che non c’è una persona uguale all’altra, proprio come nel caso dei cavalli: quindi bisogna avere un approccio esclusivo e dedicato nei confronti di ciascuno. Non si può lavorare per schemi indifferenziati».

Le è mai capitato il caso in cui gli aspetti psicologici siano stati più importanti di quelli tecnici?

«Mi è capitato molto spesso».

E in quelle situazioni… cosa fa? Come ci si pone nel rapporto con l’allievo in questi casi?

«La cosa più importante in assoluto, direi basilare nel senso che poi sopra ci si costruisce tutto il resto, è convincere la persona che quella tal cosa la può fare. Che è all’altezza del compito. Che può farcela. Bisogna fare in modo che la persona a cavallo abbia fiducia in sé stessa».

Qual è stata la sua soddisfazione più grande da tecnico? Gli allievi che più l’hanno gratificata?

«Per fortuna ne ho avute tante, di soddisfazioni… Quanto ai nomi, beh… sono tanti anche i nomi… Alberto Zorzi, Gianluca Palmizi, Andrea Bolla, Elena Salvadori, Ludovica Minoli, Francesca Capponi, Jonella Ligresti, Beatrice Patrese, Marcello Carraro… solo per dirne alcuni».

In generale è poi vero che lei ha portato ad altissimi livelli molte amazzoni, forse più che cavalieri: le donne hanno più successo per una questione di diversa sensibilità?

«Forse più sensibilità, sì. Certamente una migliore capacità di ascolto».

Alberto Zorzi in che periodo lo ha avuto?

«Beh, quando l’ho lanciato ad alto livello… San Patrignano, Verona, Piazza di Siena, Copenhagen, Atene… tanti concorsi importantissimi con lui».

Cosa ha pensato di Alberto Zorzi quando ha cominciato a lavorare con lui?

«Molto semplice: ho pensato che era un fuoriclasse».

Lei ha avuto ruoli tecnici anche in Fise.

«Sì, ai tempi di Henk Nooren commissario tecnico azzurro io mi sono occupato del settore giovanile, poi con Vittorio Orlandi ho lavorato come secondo, quindi con Markus Fuchs ho lavorato con gli Under 25».

Cosa ricorda di questi periodi e di questi personaggi?

«Ah… cose meravigliose! Esperienze che hanno arricchito enormemente il mio bagaglio tecnico, ma direi proprio di vita».

A proposito di nomi: forse nell’elenco stilato poco prima dovrebbe rientrare anche Luigi Polesello, no?

«Altroché… ! Portare un ragazzo di 23 anni a Dublino, Aquisgrana, Verona, Global… una soddisfazione impagabile… !».

Ma non le sarebbe piaciuto di più viverle da cavaliere queste cose?

«No no no… Quando Luigi è entrato a Dublino, quando è entrato ad Aquisgrana… per me è stato commovente, ho provato sensazioni e vissuto momenti che non sarei capace di descrivere».

Tra i suoi allievi poi ce n’è una un po’ particolare che si chiama Giulia: sua figlia, ovviamente… Com’è il rapporto con lei?

«Fantastico, fantastico».

Ma è più difficile essere istruttore della propria figlia?

«No, direi di no. Quando lei entra in campo non è più mia figlia, e lei lo sa».

E per lei? Quando Giulia entra in campo lei è ancora suo padre?

«È una domanda che bisognerebbe fare a Giulia… !».

Facciamo una specie di gioco: le dico dei nomi e lei dice quali pensieri le vengono in mente.

«Va bene, proviamo».

Rivarotta di Pasiano.

«Eh… Rivarotta… la mia infanzia… Dovrò ringraziare per sempre il dottor Francesco Paresi, e poi Francesco Bucciarelli, Giorgio Rovaldi, il capitano Ascoli e poi il grande Sergio del quale non ricordo adesso il cognome, un uomo di scuderia che mi ha insegnato tantissimo, un uomo fantastico… stavo lì delle mezze giornate con lui che mi insegnava a mettere le fasce… ».

Alberto Gulinelli.

«Qui si toccano corde importanti. Determinanti. Io continuerò a ringraziare Alberto Gulinelli per tutta la mia esistenza: per tutto quello che mi ha dato nella vita con i cavalli e nella vita fuori dai cavalli. Non ci sono parole per spiegare quello che lui è stato per me».

Giuseppe Zancarli.

«Caspita, mi sta facendo dei nomi che mi fanno venire i brividi... È commovente per me ripensare a tutto questo… Giuseppe… Ero dal dottor Gulinelli e Giuseppe mi chiese di trasferirmi da lui perché voleva che io prendessi in mano la gestione della sua scuderia. Io gli risposi che non mi sentivo ancora pronto, che avrei preferito stare ancora un po’ con il dottor Gulinelli. E così accadde. Ma Giuseppe era certo del suo proposito, e così mi fece la proposta anche l’anno successivo: questa volta accettai e… beh, per me è partito tutto da lì, la mia carriera di cavaliere e poi quella di trainer con Gianluca Palmizi e i fratelli Bolla».

Uberto Lupinetti.

«Cosa devo dire di Uberto… Ho fatto due periodi invernali lì da lui, e ho imparato tantissimo con anche il maestro Menicanti… eh… io guardavo e imparavo… guardavo e imparavo… guardavo e imparavo… ».

Oltre a questi personaggi, ci sono persone alle quali lei sente di dover essere riconoscente per la sua formazione di uomo di cavalli?

«Direi che questi sono i nomi fondamentali… Ne devo aggiungere uno, in effetti: Roberta, mia moglie. Se avessi già avuto lei al mio fianco quando George Morris mi ha chiesto di andare negli Stati Uniti da lui… sarei andato subito. Con Roberta sarei andato subito. Invece a quel tempo lei non c’era ancora, io ero solo e ho detto di no».

E perché? Cosa l’ha fermata?

«Beh… avrei avuto bisogno di una spinta, diciamo. Per me sarebbe cambiato completamente tutto. Troppo. Un cambiamento radicale della mia vita. Non me la sono sentita».

Questo per il passato: invece cosa vede nel suo futuro?

«Vorrei vedere le Olimpiadi. Posso dire che è l’unica cosa che mi manca. Ma è il sogno di tutti, ovviamente. Non si sa mai che arrivino anche quelle, prima o poi».

Quindi si sente soddisfatto?

«Soddisfatto di quello che ho fatto in tutti questi anni, ma non appagato».

Una volta tutti la chiamavano Santino. Perché? Lei era un ragazzone alto e grosso…

«Sì, ma in casa ero il più piccolo tra noi fratelli, e quindi ero Santino».

Adesso però nessuno la chiama più Santino…

«No, qualcuno ancora sì».

Ma le piace essere chiamato Santino?

«Sì, certo: mi fa ritornare indietro nel tempo, e ripensare ai miei genitori».