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DA UNA CARROZZINA A UNA CARROZZA: LE DUE VITE DI GIULIO TRONCA

Umberto Martuscelli

2020.08.18 – Giulio Tronca ha partecipato a due edizioni del Campionato del Mondo di paradriving. È un atleta di spicco sulla scena italiana. Il primo paradriver azzurro a prendere parte a un mondiale. Ha vinto medaglie. Ha vissuto esperienze agonistiche – e di conseguenza umane – indimenticabili ed esaltanti lungo tutto l’arco della sua carriera di driver alle redini lunghe.
Ma tutto questo non sarebbe letteralmente esistito senza l’accaduto di quel giorno, l’8 aprile del 2008. Senza l’accaduto di quel giorno Giulio Tronca oggi camminerebbe con le sue gambe, avrebbe una vita convenzionalmente definibile… normale, farebbe molte cose certamente belle e appaganti: ma non avrebbe né fatto né vissuto tutto quello che dopo quell’8 aprile 2008 in realtà ha fatto e vissuto. Quindi: è stato un bene che sia accaduto? È stata una… fortuna? Non pensiamolo nemmeno per un solo istante, per carità… No. La questione non è da porre in questi termini. La questione è da porre nei termini in cui la pone lo stesso Giulio Tronca: dal momento che è accaduto e io non posso fare più nulla per evitarlo, cerco di valorizzare al massimo e al meglio tutto quello che mi è possibile. Questo è il punto. Solo che un uomo dell’intelligenza, della forza, della vitalità e del dinamismo di Giulio Tronca è riuscito a fare ‘dopo’ molto più di quello fatto ‘prima’, sotto il profilo dello sport e della vita e del rapporto con i cavalli: andando caparbiamente alla ricerca di un possibile che poteva anche sembrare impossibile. Ma impossibile non per lui. Non per Giulio Tronca.

Possiamo dire che se non ci fosse stato l’incidente lo spessore della sua vita di uomo di sport e di cavalli non sarebbe probabilmente stato di questa misura?
«Ma no, non di questa misura: non ci sarebbe stato del tutto, assolutamente! Se non ci fosse stato l’incidente la mia vita sarebbe andata avanti come fino a quel momento: avrei continuato a impegnarmi nel mio lavoro e nel fare le passeggiate per puro divertimento con il mio cavallo, e basta».

Il prima e il dopo sono segnati da quel giorno, l’8 aprile del 2008…
«Ero in moto sulla circonvallazione di Vicenza. Stavo andando pianissimo, non più di 35 chilometri all’ora. Una signora è uscita con la macchina dal parcheggio facendo una inversione di marcia. Non mi ha visto. Io ho frenato, la moto ha sbandato… poi non ricordo più niente».

Quanti anni aveva in quel momento?
«Sono nato nel 1954, quindi proprio 54».

Sono quindi trascorsi dodici anni da allora: secondo la sua esperienza vissuta fino a oggi una tragedia del genere si affronta con più forza all’età in cui ha dovuto farlo lei oppure quando si è più giovani?
«No no, molto meglio alla mia età sicuramente… Quando si ha già una grande porzione di vita e di esperienza alle spalle, quando si sono già costruiti e solidificati rapporti affettivi e familiari, quando si è già vissuto abbastanza senza questa spaventosa limitazione nella capacità di movimento e di relazione e di esperienze. Se la rete di rapporti affettivi tiene rispetto a questa situazione, beh… diventa una risorsa fondamentale. Se non dovesse tenere… eh… sarebbe molto dura… ».

Però lei di suo è una persona di formidabile forza e determinazione…
«Ma io sono stato fortunato perché mia moglie è stata eccezionale, bravissima… ha subito innescato un meccanismo vitale molto forte. Del resto lei ha sempre lavorato nel reparto commerciale di un’azienda, ma è laureata in psicologia: le sue basi sono quelle. E poi mi sono state molto vicino tutte le persone della fabbrica in cui lavoravo… E tutte le persone del centro equestre che frequentavo… Tutti loro mi hanno rimesso metaforicamente in piedi, pur essendo io costretto su una carrozzina».

La rete di cui diceva, la rete che tiene…
«Esatto. Ne dico una. Io ho fatto sette mesi di ospedale perché quelle per le lesioni spinali sono cure lunghissime… però il sabato si poteva tornare a casa e la prima volta che è successo mi hanno subito portato in maneggio dove era stata organizzata una festa per me con i cavalli, tutti gli amici, la mia famiglia… e una grande scritta che diceva bentornato Giulio… ».

Deve essere stato un momento molto… forte!
«Altroché… Oppure in fabbrica… io ho lavorato fino al momento della pensione in un’azienda che produce giostre, ero responsabile della produzione. Dopo venti giorni dal mio ritorno definitivo a casa dall’ospedale sono tornato a lavorare… e ho trovato tutti gli adattamenti necessari per me, gli scivoletti… tutto! Perfino in officina non c’erano più i trucioli per terra: non ho mai forato una sola volta le ruote della carrozzina».

Comunque tutto questo è accaduto anche per merito suo, della sua capacità di creare il rapporto umano…
«In parte sì, ma quello che voglio dire è che se il sistema che si ha intorno regge e sta in piedi, allora si può continuare a vivere e ad andare avanti. Anche perché oggi c’è una cultura specifica sulla disabilità molto avanzata: devo dire più all’estero che in Italia, però anche da noi le cose stanno procedendo».

La condizione di disabilità le ha dato modo di… trovare qualcosa che altrimenti non avrebbe mai trovato?
«Sì, assolutamente: il modo in cui si vedono gli altri. Il prossimo. Le altre persone. Cambia radicalmente. Cambia perfino in meglio con le persone con le quali esisteva già da prima un rapporto positivo; mentre si riesce a capire molto bene quali sono le persone con le quali non è possibile entrare in connessione: persone con le quali anche prima non ci si connetteva, solo senza rendersene conto… La disabilità mi dimostra tutto con la massima evidenza… ».

Come se fosse una lente di ingrandimento attraverso cui osservare le cose della vita?
«Ecco, esatto, proprio così. Prima l’apparenza poteva anche avere un certo peso: adesso che la gente mi vede con le ruote al sedere invece è tutto molto più diretto e vero. Ma lo è anche nel mio modo di esprimermi e di parlare con gli altri: me ne accorgo io per primo, quando parlo di me e delle mie cose vedo che riesco arrivare al cuore delle persone. Ma tutto ciò accade perché è cambiata la mia condizione: non è una cosa che ho studiato e preparato… è semplicemente successo».

Lei dà l’impressione di essere una persona sempre molto positiva e motivata… ma ci saranno anche momenti di difficoltà e sconforto, ovviamente…
«Eh sì, ci sono eccome, però non ho mai avuto depressione. In effetti in ospedale aiutano molto da questo punto di vista, c’è un servizio psicologico e di assistenza molto efficace, un percorso farmacologico di sostegno più o meno intenso a seconda dei casi… Per me è stato leggero, però c’è stato. I momenti di sconforto sono frequenti ma per fortuna non prolungati, sono momentanei, legati soprattutto alle difficoltà materiali… La limitazione più pesante da sopportare e quindi la peggiore in assoluto è la gestione delle necessità fisiologiche personali, l’andare in bagno insomma… è davvero la cosa più difficile da sopportare tra tutte».

Parliamo di cavalli. Prima dell’incidente lei in che modo viveva il rapporto con lo sport equestre?
«Assolutamente niente di agonistico. Facevo passeggiate. Ero nelle Giacche Verdi anche: facevamo servizi ecologici sul Brenta, uscivamo in coppia una volta al mese e controllavamo un tratto di fiume segnalando tutto quello che c’era da segnalare. Ma a parte questa attività io uscivo ogni domenica a cavallo: partivo alle 7.30 con un mio amico e con mia figlia, lei è venuta sempre con me dai 6 ai 18 anni. Portavamo fuori la gente che andava da un affittacavalli a Pozzoleone, stavamo fuori due o tre ore».

Come è nata questa passione?
«È nata tardi, nel 1990, avevo 36 anni, quindi non ero più un ragazzino… Ero a casa per un periodo perché mi ero rotto una caviglia, e mentre ero in convalescenza accompagnavo mia nipote che andava a prendere lezioni in un maneggio: è finita che ci siamo appassionati al massimo sia io sia suo padre… ».

Ma le carrozze?
«Mai viste fino a poco dopo il mio incidente. Un giorno ero in vacanza ad Asiago in una casa che prendevamo in affitto d’estate… era già il secondo anno che ero in carrozzella. A un certo punto vedo passare un uomo alla guida di una pariglia… beh, è stato come un colpo di fulmine! Mi sono detto: se io me ne stessi su una carrozza potrei continuare a fare i miei giri con i cavalli… ».

E quindi… ?
«E quindi sono tornato a casa e ho chiamato subito al telefono Carlo Mascheroni. Non lo conoscevo, ovviamente: gli ho detto so che lei è uno dei più grandi specialisti in Italia, io sono messo così e così ma mi è venuta questa idea un po’ pazza, gli ho detto… Macché pazza, mi ha risposto lui, vieni subito qui che ci mettiamo al lavoro… Sono andato da lui, Carlo mi ha messo su una carrozza, mi ha messo le redini in mano, mi ha fatto galoppare e… ».

E… ?
«Beh… lacrime, pianti di gioia, emozioni a non finire… L’immediata prospettiva di una vita nuova… Una specie di visione, un lampo nel buio… Dopo un mese e mezzo avevo a casa cavallo e carrozza e tutto».

Ma come ha fatto a imparare? Non è facile guidare una carrozza…
«Un po’ da solo telefonando a Carlo… Poi una volta al mese andavo su da lui che mi faceva lezione. La prima gara l’ho fatta a Sommacampagna con Tatiana Falconi che faceva da giudice, Carlo era lì e ci ha detto dai venite, proviamo: un disastro, facevamo una confusione pazzesca, cavallo in piedi, Tatiana che diceva io non voglio vedere niente… del resto in quel momento non esistevano patenti né regolamento, per i para dico, quindi Tatiana ha detto a Carlo fai tu, vedi tu… ».

Una cosa davvero pionieristica, quindi…
«Davvero… Poi ho conosciuto Flavio Lunardon e ho cominciato a prendere lezioni da lui, cioè lui veniva da me… Quindi mi sono trasferito con cavalli e tutto da lui al Girasole nel 2011 rimanendo lì fino al 2018. Poi mi sono spostato all’Albereria, il centro ippico di Giuseppe Pozzato a Sandrigo. Lì mi preparo da solo e ogni tanto chiamo qualcuno che venga a darmi un’occhiata».

In tutto questo la partecipazione a ben due Campionati del Mondo… !
«Sì, sarebbero stati tre se questo del 2020 non fosse stato annullato per via della pandemia…  Il primo nel 2016 a Beesd, il secondo nel 2018 a Kronenberg, entrambe le località in Olanda. Ma non sono arrivato in fondo a nessuno dei due… ! A Beesd mi sono rovesciato con la carrozza in maratona… ma eravamo proprio fuori dal mondo, la carrozza non era adeguata, eravamo impreparati… ».

Oddio, rovesciarsi in maratona non deve essere stata un’esperienza gradevole…
«Ma no, non succede niente di grave, fai un bel bagno nel fango e vedi tutti che intorno si agitano da morire… Adesso comunque mi sono costruito due paratie laterali che mi proteggono: perché quando succede qualcosa del genere tutti saltano giù ma io non posso… ».

A Kronenberg nel 2018 invece è andata meglio, no?
«Oh sì, molto meglio! Cioè, a dire il vero dipende dai punti di vista… In dressage mi sono classificato 3° e in maratona 9°, quindi dopo le prime due prove nella classifica generale del Campionato del Mondo ero 5°. E poi… ho rovinato tutto nella prova dei coni l’ultimo giorno: ho preso la porta numero uno dopo la porta numero quindici… eliminato, quindi».

Una grande delusione…
«Grande delusione… ? Ci ho messo un anno e mezzo a capire dov’ero, chi ero, psicologo e quant’altro… Ne ero uscito letteralmente inferocito… ho cominciato a pensare a difetti di concentrazione, a problemi con la mia mente e la mia attenzione, mi sono messo a fare esercizi per la distensione, per la concentrazione, tutta una serie di cose che non sto neanche a dire… ».

Avendone beneficio?
«Sì… beh… certo, anche se poi alla fine mi sono reso conto che il problema non stava nella mia testa, no… il problema era Candy, la mia cavalla. Lei è bravissima, intendiamoci, una compagna meravigliosa… Perfino troppo brava: è talmente abituata a inforcare le porte che se te ne trovi davanti una che non è quella giusta, quella del percorso cioè, beh… lei la prende! Mi sono reso conto del problema quando mi è capitato una seconda volta dopo Kronenberg. Il fatto è che con la carrozza così come montando in sella si guarda avanti, si guarda la direzione che si deve seguire, e il cavallo va lì, va dove va lo sguardo di chi guida, e il movimento della mano di chi guida deve essere come quello di una piuma sulla bocca del cavallo… ma se capita di seguire anche temporaneamente la direzione di una porta che non è quella giusta… può darsi che il cavallo la prenda. Ecco il mio problema di Kronenberg: del quale mi sono reso conto davvero molto tempo dopo!».

Le carrozze, i cavalli, la gara, gli allenamenti… una dimensione importante della sua vita, ormai no?
«Madonna mia… altro che importante! Senza contare che tutto questo mi ha permesso di migliorare enormemente la mia cultura equestre: il dressage, la maratona, i coni… è un po’ come fare un completo, bisogna avere una conoscenza dello sport e del cavallo a trecentosessanta gradi. E poi misurarsi sul piano della tenuta agonistica personale perché, facendo un esempio, un Campionato del Mondo comporta un carico di stress non da poco. Anzi, direi pazzesco… ».

Anche dal punto di vista fisico, forse…
«Altroché! Questo sport mi aiuta fisicamente tantissimo. Ho 65 anni, vado in palestra, faccio ginnastica, due volte alla settimana attacco e una volta alla settimana lavoro i cavalli alla corda con una ragazza che mi aiuta. Poi sto fuori, all’aria aperta, con i cavalli, insieme a loro… insomma, tutto questo è bellissimo!».