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LUCIANO CAMPAGNARO, L’UOMO CHE VA VELOCE

di Umberto Martuscelli

Quando io ero un ragazzino il nome Campagnaro mi incuteva una specie di soggezione: Luciano ha solo cinque anni più di me eppure allora mi pareva molto più grande, dovrei dire vecchio ma a quel tempo e a quell’età ‘vecchio’ non era un termine che ci apparteneva (nemmeno oggi, a volerla dire tutta… ).

Mi incuteva soggezione perché dai racconti che sentivo circolare era chiaro che lui viveva un’altra dimensione rispetto alla mia. Capivo – pur senza averne cognizione certa: nei dettagli, intendo dire – che lui faceva cose… difficili. Difficili, ecco. Cose che io non sarei stato capace di fare. Cose per le quali bisognava essere non solo bravi a cavallo, ma anche coraggiosi nella vita. Cose per le quali bisognava essere capaci di vivere senza la protezione di ambienti sicuri e garantiti.

Luciano era anche alto, magro e aveva un corpo che sembrava talmente duro da essere infrangibile. Poi aveva un modo di parlare che dava l’impressione proprio di forza: perché anche quando diceva cose da arrabbiato le diceva con pacatezza. Quindi sembrava che nulla avrebbe potuto smuovere quelle sue certezze, quelle sue forze: se perfino da arrabbiato riusciva a parlare in modo (abbastanza) pacato…

Anche nel vederlo montare rimanevo molto impressionato: Luciano aveva un’inforcatura particolare, che lo faceva sembrare sempre in avanti, una specie di flusso di movimento proiettato solo ed esclusivamente in una direzione. Proprio la posizione: il piede stava a metà nella staffa, il tallone non era troppo spinto in basso, la caviglia sembrava un ammortizzatore elastico ma duro, il ginocchio era il fulcro di tutto, il punto di snodo di qualunque azione che automaticamente si rifletteva su una mano che andava sempre nella direzione della bocca del cavallo, senza mai tirare indietro… Luciano non tirava mai indietro, mai, nemmeno in casi estremi. L’immagine che si aveva nella mente vedendolo montare era quella di un flusso propulsivo che partendo dall’inforcatura attraversava le braccia e le mani andando verso la bocca del cavallo… Luciano usciva dalla curva e galoppava verso l’ostacolo: questo faceva. Sempre.

Velocità. In sella e nelle cose della vita. Questo concetto deve averglielo piantato nel cervello e nel cuore il maggiore Salvatore Oppes. Lui: l’uomo che insieme ai fratelli d’Inzeo ha costituito una formidabile squadra azzurra nel corso degli anni Cinquanta. Fratello maggiore di Antonio (il papà dell’attuale Salvatore Oppes), il quale un giorno mi avrebbe raccontato che Salvatore gli insegnava a ‘sentire’ il cavallo portandolo a saltare alla corda con gli occhi bendati e le mani legate dietro la schiena… Sì.

A un certo punto ho saputo la storia: Salvatore Oppes ormai anziano e massacrato dagli incidenti – l’ultimo, il più grave, gli aveva rovinato anche la faccia per cui gli sarebbe rimasta un’espressione terrificante sul volto, una specie di ghigno satanico reso ancor più inquietante dal suo portare sempre gli occhiali scuri… – aveva riunito una piccola squadretta di ragazzini che gli montassero i cavalli e ai quali lui avrebbe trasferito tutto il suo sapere. Questi ragazzini erano tutti provenienti dal Trentino e ben presto sarebbero stati soprannominati ‘banda Kawasaki’. Facile immaginare perché… Luciano Campagnaro, Danilo Angeli, Vittorio Cavalieri: ecco la banda Kawasaki. Giravano i concorsi di tutt’Italia con i cavalli del maggiore Oppes spostandosi da un luogo all’altro in treno, loro insieme ai cavalli, stesso vagone, stessa paglia: tre o quattro cavalli ciascuno. Dovevano vincere, il più possibile: perché i soldi servivano per continuare a girare. Senza soldi, niente concorsi: senza concorsi niente montare a cavallo. Molto semplice.

Ecco le cose difficili di Luciano Campagnaro. Un giorno Luciano e io – ormai amici da tempo – ci siamo seduti da qualche parte e lui mi ha raccontato: perché io volevo fare un pezzo su di lui, volevo sapere cose che ancora non sapevo, volevo sapere i suoi pensieri, le sue sensazioni. Così abbiamo cominciato a chiacchierare e lui mi ha descritto una scena che io non avrei mai più dimenticato, mai più dimenticato per sempre. Come le immagini di un film che entra nel cuore e nel cervello rimanendovi indelebilmente impresso. Lui ragazzino, poco più che bambino. La decisione condivisa con i suoi genitori di andare a lavorare e a montare in scuderia dal maggiore Oppes. Arriva il giorno. Mamma e papà lo accompagnano da Oppes. Un po’ di chiacchiere, poi arriva il momento: la mamma e il papà di Luciano salgono in macchina dopo i saluti e i baci. Luciano sente il rumore del motore. Poi vede la macchina che si muove e che si comincia ad allontanare. I suoi genitori dentro. Loro se ne vanno. Casa sua è centinaia e centinaia e centinaia di chilometri lontano da lì: e la mamma e il papà stanno andando via. Lui lì. Il maggiore Oppes gli sta dietro, con le mani sulle sue spalle. Luciano davanti a sé vede la macchina diventare sempre più piccola, e sente che dietro di lui c’è un uomo con gli occhiali scuri e un ghigno satanico sul volto. Luciano aveva voluto essere lì, ma adesso gli sembra un incubo... Le cose però prendono una piega completamente diversa già l’indomani mattina. Luciano si sveglia e va a fare colazione: sul tavolo trova il barattolo di Ovomaltina. La sua adorata Ovomaltina. Per lui impossibile iniziare la giornata senza Ovomaltina. Il maggiore Oppes lo sapeva: ed ecco l’Ovomaltina lì sul tavolo. Per lui. Per Luciano. E da quel giorno Luciano ha cominciato ad andare veloce.